Racconto “Le mille maschere di Jumana”

Racconto “Le mille maschere di Jumana”

Nota

Le mille maschere di Jumana

Cari lettori, è per me un enorme piacere ritornare a pubblicare dopo un mese e mezzo in cui a fatica sono riuscita a mettere una parola dietro l’altra per formare una frase.

Il racconto “Le mille maschere di Jumana” è la seconda storia realizzata per la rubrica #narratoridistorie, organizzata da Christine sul gruppo Facebook Ritrovo scrittori anonimi e (s)bloccati. Per tenere allenata la nostra fantasia e la nostra penna, Christine ha deciso di sfidarci in questo 2021 a un gioco dell’oca del tutto particolare, in cui a ogni casella corrisponde una storia da scrivere, con tanto di bonus o imprevisto! Non potevo non aderire e lanciarmi in quest’avventura.

A questo secondo lancio di dado mi è capitata una casella particolare, la numero 5, dal tema “Il violetto è diventato lilla. Si è mascherato”. La consegna associata a questa casella era “Le maschere vengono scelte, a volte imposte, a volte tolte.”; il colore da includere era il violetto, la caratteristica “Lacrime/Tristezza”. Essendo la casella dispari, l’imprevisto da aggiungere al racconto è stato il 13, “Il cielo sarebbe azzurro, ma le nuvole coprono tutto”. Un mix di elementi da cui è nata una storia che spero rispetti tutti i vari punti e soprattutto che possa piacervi, perché va un po’ fuori dalla mia comfort zone 🙂 Fatemi sapere nei commenti cosa ne pensate! Buona lettura 🙂

Racconto “Le mille maschere di Jumana”

«Signorina Jumana, la dichiaro in arresto.»
Nessuno mi chiamava più Jumana da anni.
«Ha il diritto di rimanere in silenzio. Tutto quello che dirà potrà essere e sarà usato contro di lei in Tribunale.»
Le nuvole, che fino a quel momento avevano lasciato trasparire la lieve sfumatura azzurra del cielo alle loro spalle, si fecero improvvisamente più scure, coprendo ogni spiraglio di luce.
«Ha diritto a un avvocato, se non può permetterselo gliene sarà assegnato uno d’ufficio.»
Il foulard violetto che mi avvolgeva il viso si liberò alla prima folata di vento mentre l’agente continuava ad elencare i miei diritti trascinandomi verso la volante che, sirene accese, mi aspettava fuori dalla scuola nella quale insegnavo per portarmi in commissariato.

«Signorina, Jumana – perché è questo il suo vero nome, sbaglio? – ci racconti un po’ di lei.»
L’interrogatorio con l’ispettore capo della polizia di New York ebbe inizio poco dopo l’arresto, non appena misi piede in caserma. Dietro al vetro della sala interrogatori nessun avvocato, lo sapevo, ma concentrandomi riuscivo quasi a vedere il volto inespressivo di Paul, l’uomo che mi aveva accolta in casa e dato rifugio negli ultimi dieci anni, senza mai aver sospettato niente di tutto questo. Mi aveva amata, mi aveva protetta, mi aveva cullata, mi aveva dato una casa e una famiglia, e io gli avevo dato in cambio soltanto una montagna di menzogne.
«Sto aspettando.»

La sala, scura e senza alcuna via di fuga eccetto la porta dalla quale ero entrata, era esattamente come l’avevo immaginata nei ricorrenti incubi che si erano susseguiti durante le interminabili notti insonni trascorse da quando, da Jumana, ero diventata Juhanah e via via Jade, Joanne, Jennifer, Joy, Judie, Judith, nascondendomi dietro maschere sempre più spesse che mano a mano avevano sepolto la vera me.

«Signorina, il suo silenzio non migliora la brutta posizione in cui si trova. Devo elencarle le accuse a suo carico per convincerla a parlare?»
Scossi la testa. Le conoscevo perfettamente, a memoria, ripetute come un mantra infuocato in ogni attimo di quelle finte vite. Ero più che consapevole dei rischi cui da venti lunghi anni andavo incontro, eppure in quel momento, con la verità venuta a galla e sbattutami in faccia attraverso lo sguardo schifato dell’ispettore, l’unica cosa che m’importava non era mettermi in salvo, ma proteggere da me stessa – dalla vera me – l’uomo in piedi dall’altra parte del vetro.

«Allora risponda!» sbottò.
«Non c’è molto da dire, ispettore…» La voce risuonava lontana, ovattata, come non fossero uscite dalla mia bocca, quelle parole. «Ho dovuto farlo. Paul non ne sapeva niente.»
«Ha dovuto fingersi qualcuna che non è? Per vent’anni?»
«Sì.»
«E perché mai?»
«Per salvarmi la vita.»
Il silenzio ci circondò. Sospirai, presi il coraggio a due mani, e iniziai a raccontare.

«Abitavo in un villaggio sperduto della Giordania, vicino al confine tra Siria e Iraq. Vivevo nella povertà più assoluta con la mia famiglia: eravamo i miei genitori, tre fratelli, due sorelle, io. Insieme a noi, i miei nonni. Successe all’improvviso: iniziarono a bombardare, non smisero più. Credevamo fosse un attacco lampo, ne avevamo già vissuti molti, alcuni dei villaggi vicini erano andati distrutti negli anni, ma mai nessuno scoppio aveva raggiunto noi.

Era notte. Dormivano tutti. Non ricordo niente se non un rumore assordante e fiamme altissime. Avevano circondato ogni cosa, tutto era incandescente. Ricordo le urla disperate di mia madre e i corpi immobili dei miei nonni, il fumo che avvolgeva la capanna, la credenza sui miei fratelli, la gamba spezzata di mio padre… Mi misi a correre. Nella testa tutto mi urlava di scappare il più lontano possibile. Di lasciarmi alle spalle quella carneficina.

Guidata dalla disperazione, giunsi al villaggio vicino dopo un paio di giorni di cammino. Lì ebbe inizio tutto. Si chiamava Yoosuf, controllava ogni cosa, sottometteva ogni persona. Appena arrivata, l’anziana signora che mi accolse cercò di mettermi in guardia e convincermi ad andare avanti, ma ero troppo piccola per capire davvero cosa intendesse dire, e decisamente troppo sconvolta per pensare di poter trovare fortuna altrove. Ero viva, ero sola, ero dilaniata dal dolore. Mi catturarono insieme alla donna, lei fu uccisa sul colpo, io trascinata al cospetto di Yoosuf. Volle sapere tutto di me, chi fossi, da dove venissi, che cosa ne fosse stato della mia famiglia. Allora ero Jumana.»

Afferrai il bicchiere d’acqua che l’ispettore aveva posato sul tavolo a metà del mio racconto, ne sorseggiai un goccio, cercai di fare ordine nella testa e di trovare la forza necessaria a continuare.

«Ero Jumana e avevo 9 anni, ma per Yoosuf ero grande abbastanza. Le violenze, di ogni tipo, erano all’ordine del giorno. Prima per motivi futili, poi senza motivo, quasi come fosse un gioco, quasi come fosse divertente. Il giorno in cui riuscii a scappare, un paio d’anni dopo, ero stata picchiata quattro volte, e violentata tre. Mi aiutò la sorella dell’anziana signora che mi aveva accolta per prima al villaggio, diceva di sentirsi in colpa e di voler continuare ciò che la sorella non aveva potuto portare a termine. Mi fece portare dal marito fino a Tel Aviv, rimasi lì qualche mese fingendomi una lontana cugina dell’uomo. Iniziai allora a cancellarmi: presi il nome di Juhanah, e da lì in poi è stato un susseguirsi di vite, fino ad oggi, fino a Judith.»

Avvicinai nuovamente il bicchiere alle labbra, senza riuscire a bere: le lacrime, silenziose, che mi scorrevano sul viso si andavano mescolando all’acqua. Mi mancava l’aria. L’ispettore mi guardava in silenzio, in attesa non so bene di cosa, così aggiunsi: «Non avrei mai mentito se non ne avessi avuto la necessità.»
«Non ne dubito, signorina. Quel che non riesco a comprendere è perché continuare anche qui, dall’altra parte del mondo, dopo tutti questi anni. Perché non farsi aiutare una volta raggiunta l’America, perché mentire all’uomo che l’ha accolta in casa, perché?»
«Temevo lui potesse rintracciarmi. Scappando l’avevo sfidato, e chi sfida Yoosuf muore e basta.»
«Da quel che ci risulta, l’unico morto in questa storia è proprio Yoosuf. Ci ha lasciato da almeno quindici anni.»
«Da almen… Oh.»

Fu come ricominciare a respirare dopo essere rimasta in apnea per un tempo interminabile.
Yoosuf.
Morto.
La ragione di tutti i miei incubi e delle mie debolezze, dei miei più profondi dolori e delle mie lacrime più sentite svanita in un soffio di vento formato da una parola fatta di cinque misere lettere.
Quindici anni. Era morto nello stesso anno in cui avevo messo piede per la prima volta in America. Mi sembrava impossibile. Tutto quel tempo vissuto nell’ombra, cercando di dare agli altri meno dettagli possibili di me, del mio passato, della mia vera identità… se solo l’avessi saputo.

«Come l’avete scoperto?»
L’ispettore si schiarì la voce. «È stato suo marito in realtà, voleva farle una sorpresa, ricontattare la sua famiglia. Non riusciva a risalire a lei in nessun ufficio…»
Fu come sentire il mondo crollarmi sotto ai piedi. Rovesciai il bicchiere senza nemmeno rendermene conto. Rimasi impietrita ad osservare l’acqua scivolare a terra lungo la liscia superficie del tavolo a cui ero seduta.

«E ora che succede?» mormorai dopo un po’.
«Dovremo verificare la sua storia. Ci sarà un processo, saranno i giudici a decidere. Mi dispiace, per quel che può valere. Capisco le ragioni del suo gesto, sinceramente, non la modalità d’esecuzione.»
Scossi il capo cercando di scrollarmi di dosso la sensazione di tradimento che pervadeva ogni cellula del mio corpo. Non ce l’avevo con Paul, l’aveva fatto a fin di bene, ce l’avevo con me stessa per non essere mai riuscita ad essere sincera con lui.

«Posso avere carta e penna?» chiesi all’ispettore. «Vorrei lasciarle un messaggio per mio marito, niente di segreto, potrà leggerlo prima di consegnarglielo.»
«Vedo che posso fare» disse prima di uscire dalla stanza. Fece ritorno poco dopo con un post-it e una penna a sfera blu. Scrissi a Paul la frase con cui, dieci anni prima, ci eravamo conosciuti, seduti fianco a fianco alla prima di uno spettacolo teatrale dedicato al famoso drammaturgo italiano, Pirandello, in un circolo minore di Broadway, sperando capisse. Ricordasse. Potesse perdonarmi.
“Le maschere vengono scelte. A volte imposte, a volte tolte. Ora sono qui, di fronte a te, senza indossarne alcuna. E non mi sono mai sentita così vera.”

Mi sentivo malissimo per avergli mentito: non era mai stata mia intenzione farlo, non volontariamente. Credevo, anzi, ne ero convinta, che non rivelando mai, né a lui né a nessun altro, la mia vera identità, lo avrei protetti da qualsiasi rischio. Ero talmente terrorizzata all’idea che Yoosuf potesse materializzarsi davanti a me, in qualsiasi momento, anche nelle miriadi di nuove vite che mi ero impegnata a vivere da allora, che qualsiasi dettaglio di troppo lo vivevo come un tradimento verso la sua fiducia, e mi tormentava così a lungo che alla fine mi costringeva a ricominciare da capo, in un’altra città, con un altro nome, nei panni di una nuova me.

Solo con Paul non era successo, nonostante fossero state diverse le occasioni in cui qualche dettaglio di chi ero stata era emerso, nel corso degli anni. Solo con lui avevo trovato la forza di mettermi di nuovo prima delle mie paure.

E quando tutto stava finalmente iniziando a terrorizzarmi un po’ meno, quando avevo davvero iniziato a credere di poter vivere serena e a riscoprire il significato della parola “fiducia” rivolta nei confronti di un’altra persona, ecco la tempesta a rovinare nuovamente ogni cosa, a sgretolarmi il mondo sotto ai piedi, a riportarmi faccia a faccia con la realtà: la mia vita non sarebbe mai stata normale. Non avrei mai assaporato la bellezza della semplicità, dello svegliarsi al mattino di fianco all’uomo amato fino alla fine dei nostri giorni, senza preoccupazioni o stupidi pensieri a rovinare l’umore, senza dover centellinare ogni parola, senza il bisogno di dovermi continuamente nascondere, nascondere non solo me stessa, ma anche il mio passato e tutta la sofferenza che come un pesante fardello da vent’anni ormai portavo sulle spalle. Non sarebbe mai successo.

Consegnai il foglio all’ispettore, il quale, dopo averlo letto, lo ripiegò e lo infilò nel taschino della camicia.
«Glielo farò avere, signorina. Ora devo lasciarla, sarò presto da lei con il suo avvocato, che le spiegherà meglio i dettagli del processo.»
Annuii. Non appena fu uscito, mi voltai verso il vetro alle mie spalle. Potevo ancora sentire lo sguardo di Paul posato su di me, trapassarmi. Chiusi gli occhi e sussurrai alla mia immagine riflessa le mie scuse.

Tornando china sulla sedia, mi presi la testa tra le mani e, tra le lacrime, mi concessi il lusso di immaginarla, una vita senza Yoosuf. Senza incubi e insicurezze, senza dolori e debolezze. Mi lasciai andare tra le braccia dell’immaginazione, assaporai tutto ciò che non avevo mai potuto avere, che non avevo avuto, che non avrei avuto mai. E, anche se per il tempo di un sogno, la vera esistenza di Jumana fu una vita meravigliosa.

Disclaimer & Copyright

Il contenuto pubblicato nel racconto qui sopra è protetto dalla normativa vigente in materia di tutela del diritto d’autore (Legge n. 633/1941): la riproduzione dello scritto, anche parziale, senza autorizzazione è vietata. La storia è un’opera di fantasia: personaggi e situazioni sono frutto d’immaginazione e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Analogie con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, sono puramente casuali.

Per leggere racconti, potete cliccare qui: buona lettura! 🙂

6 commenti

  1. Ester

    Ciao Stephi 🙂 Wow. Davvero. Personalmente mi è veramente difficile lasciare un commento questa volta, perché le parole mi sembrano superflue. Ho amato tutto, che cosa hai raccontato, come l’hai fatto, cosa mi è arrivato. Il modo in cui hai scelto di interpretare la consegna è stato stupefacente. Mi sarei aspettata tante cose, ma non questo. Parola dopo parola sei riuscita a tracciare un ritratto di una realtà per molti lontana, ma che in verità vive alla porta accanto e di cui se ne parla troppo poco. Ti devo ringraziare per aver dato voce a Jumana e, insieme a lei, a migliaia di persone che questa situazione la vivono quotidianamente. Spero davvero che questo racconto possa toccare moltissimi cuori, come ha fatto con il mio. Tanti tanti tantissimi complimenti. Alla prossima <3 Ester

  2. Nuage Rose

    Ciao, sono qui per la sfida!
    Sono rimasta molto sorpresa da questo tuo racconto, che tratta un tema davvero molto delicato, attuale e di cui si parla poco (da quel che so io). Quindi ti faccio i miei complimenti sia per la trama che per l’idea che hai avuto, immagino ispirata dalla consegna di questo mese. Sarebbe bello sapere come continua la storia e se la nostra protagonista potrà tornare a vivere la sua vita, potendola chiamare davvero SUA, con il suo Paul e tutto il futuro roseo che la attende ora. Non si capisce che mi piacciono i lieto fine?
    Contentissima di aver letto questa tua storia, davvero tanti complimenti per l’impegno dimostrato!
    Nuage Rose

    1. Stephi

      Ciao Nuage Rose! Sono felice di essere riuscita a raccontarti qualcosa che sì, di solito rimane fuori dalle nostre antenne perché nessuno (o pochi) ci danno attenzione, quando invece succedono quotidianamente. Non ho sinceramente idea di se e come questo racconto avrà un futuro, ma nella vita mai dire mai 🙂 Grazie ancora per i complimenti, di cuore 🙂 Alla prossima!

  3. Liv

    Ciao. Avevo letto la storia e pensavo di aver già commentato, ovviamente ho perso colpi e rimedio subito.
    Quando ho iniziato a leggere non sapevo cosa aspettarmi. Avevo diverse ipotesi nella mia mente, ma tu mi hai sorpresa in modo decisamente positivo. Mi è piaciuto come hai usato i dettagli e il tema della maschera, hai trattato un tema molto importante come quello della violenza e lo hai fatto in modo semplice, senza esagerare in nessun dettaglio.
    Mi è piaciuto il finale anche, l’ho visto come una speranza per la protagonista e quindi per chi ha vissuto un’esperienza del genere.
    Complimenti,
    A presto.

    1. Stephi

      Ciao Liv! Grazie di cuore per il tuo commento. Sono felice di essere riuscita ad azzeccare la consegna e creare questa storia che porta luce a fatti molto spesso nascosti ai più, ma che a mio avviso dovrebbero essere un ricordo continuo di come davvero è il mondo lontano dai nostri schermi…

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