Racconto “Un miracolo d’amore”

Racconto “Un miracolo d’amore”

Nota

Buon pomeriggio, TaleTellers! Come state? Spero vi stiate godendo queste soleggiate giornate estive senza patire troppo il caldo come la sottoscritta, che vi scrive – grondante – dal giardino di casa.

Pubblico oggi dopo una riflessione durata almeno due settimane il racconto che ho scritto per #narratoridistorie, la sfida organizzata da Christine sul gruppo Facebook Ritrovo scrittori anonimi e (s)bloccati.

Dopo varie peripezie in cui al lancio del dato ho potuto modificare la casella inizialmente capitatami grazie all’imprevisto, il tema con cui ho dovuto confrontarmi è stato quello della casella 21, definita dal colore indaco, dal “miracolo” come caratteristica e dalla consegna “Chiudi gli occhi e vedi la magia”.

La consegna è stata illuminante, e infatti l’ispirazione è arrivata quasi subito. Vi avviso, perciò: il racconto che segue è bello lungo! 🙂 Spero che possa piacervi tanto quanto ho amato scriverlo: la storia di Beth e Noah si è presa un bel pezzo del mio cuore. Spero possa conquistare anche il vostro. Buona lettura!

Un miracolo d’amore

Beth e Noah si conobbero guardando il cielo sfumato d’indaco la notte del ballo studentesco di fine anno.
Gli occhi puntati su quella distesa blu oceano ricoperta di stelle, stavano ambedue riflettendo su come fosse possibile che qualcosa di tanto bello come quei piccoli corpi celesti potesse essere così dato per scontato o essere tanto sottovalutato dal genere umano, quando le loro schiene si scontrarono ed entrambi finirono a terra.

«Oddio, scusami tantissimo, stavo…» iniziò lui.
«… guardando le stelle e non ti ho visto!» concluse lei.
Scoppiarono a ridere nello stesso momento, dopo qualche secondo di imbarazzo seguito da un misero tentativo di mantenere una parvenza di serietà.
«Noah, piacere di conoscerti!» disse il ragazzo, una volta alzatosi, tendendole la mano per aiutarla a rimettersi in piedi.
«Beth» gli sorrise lei, stringendola, e il cuore di Noah fu suo per sempre.

Era l’inizio dell’estate del 1959. Beth aveva da poco compiuto i suoi dolci, spensierati sedici anni, Noah invece ne aveva già vissuti diciannove. Entrambi si erano ritrovati lì quasi per caso, quella sera, supplicati dagli amici per mesi e alla fine costretti ad accettare di accompagnarli, ma dopo il terzo ballo avevano chiesto pietà, annoiati a morte da una serata decisamente lontana dal loro interesse.

«Esco un attimo, ho bisogno d’aria fresca!» aveva detto lui agli amici.
«Esco un attimo, fa troppo caldo qui dentro!» aveva spiegato lei ai suoi.
E così tutti e due erano finiti ad osservare quello spettacolo, ognuno perso nei propri pensieri, fino a che non si erano incontrati. Dopo quel fortunato scontro, divennero inseparabili.

Fu un vero e proprio colpo di fulmine. Noah si innamorò di Beth sin dal primo istante in cui incrociò il suo sguardo. Beth ci mise più tempo a perdere la testa per quel dolce, simpatico, affascinante ragazzo “troppo bello per essere vero”, ma quando lo fece, nessuno ne rimase stupito. Al contrario, si chiesero come mai ci avesse messo tanto.

«Aspettavo la neve ad agosto!» rispondeva sempre lei. Fenomeno meteorologico improbabile ovunque eccetto che a Puregrove, che il 28 di quel mese del ‘59, giorno in cui Beth e Noah si scambiarono il primo bacio, si fece realtà e portò una gioia sconsiderata in tutta la piccola città (anche se, a scendere dal cielo, non fu la neve vera, ma quella sparata dai cannoni che ogni anno venivano usati dal sindaco per imbiancare le piste su cui l’intera costa occidentale del Paese era solita andare a sciare, in un’insolitamente prematura prova del loro funzionamento, vista la bassa temperatura di quei giorni), e specialmente nel cuore di Noah, che dopo aver corteggiato tutta l’estate la ragazza più bella che avesse mai visto, sapendo di avere una possibilità su un milione di conquistarla, sentì di aver assistito a un miracolo riuscendo nell’impresa di vincere il cuore della sua amata per sempre.

Non passarono troppi giorni tra quel bacio e l’arrivo dell’anello di fidanzamento. Sicuro di ciò che sentiva esplodergli nel petto ogni volta che qualcuno nominava Beth, Noah seguì il suo infallibile istinto e chiese la mano della sua dolce metà il 12 giugno del 1960, a un anno esatto dalla notte in cui i due si erano conosciuti al ballo che aveva cambiato le loro esistenze.

Convolarono a nozze qualche mese dopo, destino volle proprio il 28 agosto, e più il tempo passava più i due si innamoravano l’un dell’altra, come nella migliore delle favole: ogni nuovo giorno regalava loro qualcosa di straordinario da scoprire e per cui stupirsi insieme, e di quell’abbondanza non erano mai sazi, non si sarebbero saziati mai.

Fianco a fianco visitarono il mondo intero: persero le parole ammirando l’aurora boreale dal freddo Mar Glaciale Artico, impararono a mangiare usando le bacchette in Cina, scoprirono la vera bellezza dell’Italia, si entusiasmarono come bambini durante il loro safari in Africa. Dipinsero sulla tela della loro memoria una quantità innumerevole di ricordi, e incisero sulle pareti del loro cuore emozioni che a voce non furono mai in grado di raccontare.

Vissero. Intensamente. Audacemente. Felicemente.

Finché la vita che avevano imparato così tanto ad amare non rivelò loro il prezzo di tutta quella fortuna. E da lì in poi, niente fu più come prima.

******

23 agosto 2020 – Due giorni dopo

«Noah…»

La voce che udii, la mia voce, risuonò nella stanza come uno straziante lamento, un flebile e impercettibile mormorio stretto tra labbra che ancora avevano addosso il sapore del suo dopobarba. Come se, a pronunciare quel nome, il suo nome, non fossi stata davvero io.

«Noah…» ripetei, cercando di alzare di poco il tono, senza però riuscire nell’intento, e suonandomi – se possibile – ancora meno familiare.

La difficoltà nel parlare, notai, man mano che tutto intorno i contorni delle cose si facevano leggermente più nitidi, si combinava perfettamente con l’incapacità di muovermi: testa, braccia, gambe, persino le dita dei piedi e delle mani, nessuna parte del mio corpo voleva rispondere ai comandi.

«Noah, sei qui?» riprovai. Ancora una volta, non ottenni risposta.

Mi sforzai di ricordare qualcosa, qualsiasi cosa, ma non ci riuscii: nella stanza e dentro la mia testa tutto era troppo ovattato, spoglio, indefinito per comprendere cosa mi fosse successo. 

Dalla mia posizione riuscivo ad osservare soltanto un soffitto piastrellato con mattonelle bianche e squadrate, ben lontano dalle tonalità calde che decoravano le pareti di casa mia. Provai allora a muovere il collo, ma non ne fui in grado. Nemmeno le pupille volevano fissare qualcosa di diverso da quel candido, asettico cielo.

Rimasi in attesa, cercando di tenere gli occhi aperti. La stanchezza, però, poco dopo mi vinse. E crollai in un nuovo sonno.

******

24 agosto 2020 – Tre giorni dopo

Gli occhi si spalancarono all’improvviso. Sbattei le palpebre ripetutamente, ogni movimento una fitta di dolore propagata, amplificata, in tutto il corpo.

«Noah…» mormorai, la gola asciutta, il respiro affannato, ogni lettera un proiettile che con una sofferenza inaudita risaliva lungo la trachea per poi esplodere, fioco, in voce.

«È ancora troppo debole» sentii qualcuno dire.

«Ha il diritto di sapere» rispose una parlata più giovane e calda.

Provai a voltare lo sguardo nella direzione da cui mi sembrava provenissero quei suoni, senza successo: non appena mossi le pupille, ogni cosa iniziò a vorticare freneticamente e mi sentii mancare.

«Signora Johnson!» esclamò la prima voce, in lontananza.

«Prendi il defibrillatore!» gli rispose la seconda.

Ci provai, a rispondergli. Ad aggrapparmi alle parole. Ci provai davvero. Avevo un mare di domande da porgli. Dovevo chiedergli dove fosse finito il mio Noah, perché ero certa anche lui mi stesse cercando senza riuscire a trovarmi. Volevo capire dove mi trovassi, cosa mi fosse successo. Fu tutto inutile.

«Sediamola, ora. Ci riproveremo tra qualche giorno. A questo ritmo il suo cuore non può reggere oltre» fu tutto ciò che riuscii a comprendere prima di ricadere nuovamente nell’oblio più profondo.

******

26 agosto 2020 – Cinque giorni dopo

«È morto, non è vero? Il mio Noah… Non è più qui.»

Iniziò tutto con una luce abbagliante. Bianco candido, come quelle fastidiosissime luci che i dentisti sono soliti usare nei loro studi, che se le fissi un po’ troppo a lungo poi non ci vedi per cinque minuti buoni. Io non ci vidi per cinque giorni interi.

Mi aveva fatto una sorpresa. Aveva deciso di portarmi a cena nel mio posto preferito, un ristorante con vista sull’oceano al tramonto distante oltre cento miglia da casa nostra, perché quel giorno il cielo era particolarmente terso e da lì la golden hour sarebbe stata ancor più dorata. “Almeno la metà di quanto risplendi tu”, aveva detto.

Avevo cercato di convincerlo a lasciar perdere: “È un viaggio troppo lungo per un’ora soltanto” gli avevo ripetuto. “È una cosa che ti rende felice”, aveva risposto, chiudendo la questione e suggellando il mio tacito accordo con un bacio. Così, eravamo partiti.

Era stata una serata estremamente piacevole. Tutto, dal cibo all’atmosfera, era stato perfetto e noi, entrambi, eravamo stati felici.

“Sicuro che te la senti di metterti in strada? Possiamo trovare un albergo, dormire qui…” gli avevo proposto, ma Noah era tranquillo.

“Domani mattina devo incontrare Mr Davies, il direttore della banca, non posso proprio mancare” mi aveva spiegato, per questo eravamo ripartiti subito dopo cena, senza nemmeno regalarci una camminata lungo il bagnasciuga.

Avrei dovuto insistere di più. Chiamare Mr Davies e rimandare l’appuntamento, spiegargli la situazione, almeno rinviare di qualche ora. Ma mi fidavo di Noah: se diceva di potercela fare, ce l’avrebbe fatta.

Eravamo quasi vicino a casa. Una trentina di miglia, forse anche meno. Era una notte splendida. Il cielo aveva la stessa tonalità indaco della sera in cui ci eravamo conosciuti. Glielo feci notare. Disse che era un segno del destino: avevamo fatto la cosa giusta a ritagliarci quel momento per noi e l’universo ce ne stava dando prova. Ridemmo entrambi.

Il bagliore fu improvviso, accecante. Ricordo di essermi voltata verso Noah: stava ancora sorridendo. Poi più niente. Fino ad adesso.

«Signora Johnson…» Un ragazzo, in camice bianco, chiamò il mio nome dal lato sinistro della stanza. Era giovane, i capelli scuri, la pelle abbronzata. Pareva uscito da uno di quei telefilm degli anni Novanta che Noah e io ci ritrovavamo spesso a riguardare nelle calde sere d’estate, quando alla tv ne davano le repliche.

«Non batte più come prima.»

«Signora Johnson, è tutto normale. Ricorda cosa è successo?» disse, puntandomi una luce negli occhi e invitandomi a seguire il movimento con le pupille.

«Noah non c’è più.»

«Signora Johnson, la prego, risponda alle mie domande. Lasci che l’aiuti!» cercò invano di cambiare argomento.

«Lo sento. Non è più qui.»

«Signora…»

«Me lo dica e basta» implorai, guardandolo, sempre più consapevole che quello che avevo sperato con tutto il cuore fosse solo uno stupido presentimento era invece la realtà, in tutta la sua amara crudeltà.

«Io… Mi dispiace.»

Chiusi gli occhi e vidi la mia intera esistenza scorrere di fronte a me, tanto vicina quanto impossibile da stringere tra le braccia, mentre lacrime silenziose presero a scendermi lungo le guance.

Il dottore, dispiaciuto, si fissò per un po’ le punte dei piedi, lasciandomi un momento per metabolizzare.

«C’è qualcosa che posso fare?» chiese poi, schiarendosi la gola. «Qualcuno che posso chiamare?»

Scossi la testa. «Era tutta la mia vita…»

«Signora…» mi strinse la mano.

Lo allontanai, voltandogli le spalle. «Noah era tutta la mia vita.»

******

28 agosto 2020 – Sette giorni dopo

I medici compresero che non sarei sopravvissuta se avessero sepolto Noah senza darmi la possibilità di dirgli addio per un’ultima volta, così fecero il possibile per rimettermi in sesto in tempo per il suo funerale.

Per spostarmi usarono una sedia a rotelle, per farmi respirare si servirono di una bombola d’ossigeno. Anche se non parlavo più, perché non avevo più niente da dire, e anche se non ero più io la donna che quei dottori continuavano a chiamare Signora Johnson, di una cosa ero certa: volevo dare all’unico uomo avessi mai davvero amato un saluto sincero, prima di vederlo scomparire per sempre. Fui lieta, a modo mio, l’avessero capito.

Quando arrivammo in chiesa, la trovammo gremita. L’infermiera cui ero stata affidata aveva gli occhi lucidi di fronte a tutta quella gente che silenziosa mi faceva spazio lungo la navata centrale.

Ovunque mi voltassi, volti sconosciuti mi porgevano le loro più sincere condoglianze, ma io non mi ero mai sentita tanto sola in tutta la mia intera esistenza.

Ci sedemmo al primo banco, la sedia a rotelle al centro, esattamente di fronte alla bara. La processione di persone continuò per un tempo che mi parve infinito, poi entrò il sacerdote e tutti, alzatisi in piedi, ammutolirono.

Ero pietrificata. Non riuscivo nemmeno a pensare. Tutto ciò che continuavo a ripetermi era che lì dentro, dietro quel legno, il mio Noah avrebbe riposato per sempre. L’idea di quell’eternità mi fece quasi mancare.

«Se qualcuno se la sente, può dire qualche parola per Noah, prima che procediamo nella funzione» annunciò il sacerdote.

Furono in molti a condividere i loro ricordi. Amici che non vedevamo dai tempi del college, colleghi di lavoro, persino una coppia che avevamo incontrato in un viaggio in Brasile 15 anni prima e mai più rivisto.

Più loro raccontavano di lui più mi sentivo inerme, mentre dentro una rabbia senza eguali ribolliva sempre più vicina alla superficie, pronta a esplodere.

«Qualcun altro?» chiese il prete dopo il tributo dei due, rivolgendo lo sguardo agli ultimi banchi. Provai ad alzare la mano, ma non se ne accorse. Fu Gill, l’infermiera, a notare il mio movimento e, con un gesto rapido, ad afferrare il microfono per me e portarlo fino alle mie mani. Con cura e attenzione spostò la carrozzina di fronte alla bara, dandomi modo di osservare tutta la gente che riempiva, gremendola, la chiesa. Delicatamente, poi, mi spostò la maschera dell’ossigeno dal volto. Presi un profondo respiro.

«Credo che il funerale a cui state prendendo parte sia il funerale dell’uomo sbagliato» esordii, scatenando i mormorii increduli e compassionevoli dei presenti. «O forse sono io che ho sbagliato chiesa. Gill, dove mi hai portata?» la schernii, mentre lei si fece paonazza di fianco a me.

«Non sono impazzita tutto d’un tratto, vorrei rassicurarvi…» continuai. «È che quello che avete descritto, di cui avete ricordato i bei momenti e le battute… beh, non è il mio Noah.»

Un silenzio assoluto calò, gelido come il vento d’inverno, sui presenti.

«Divertente, vero? Come ci lascia spesso senza parole la cruda realtà» ripresi, poco dopo. «Fino a qualche giorno fa ero la donna più felice al mondo, e ora? Ora guardatemi. Chiedetemi se lo sono ancora. Chiedetemi se sono felice!» gridai.

«Nessuno osa? Beh, ve lo dirò io allora. Non sono felice. Non sono. Felice. Non sarò mai più, felice. Non potrò mai più essere felice. Noah era tutta la mia vita, e io l’ho perso. Per sempre. Come si sopravvive, a un dolore così?»

Li guardai. Uno ad uno. Nessuno ebbe il coraggio di tenere lo sguardo fisso su di me.

«Siamo stati insieme… che giorno è oggi?» chiesi a Gill.

«Il 28 agosto, signora Johnson…» mormorò l’infermiera.

Mi sentii morire. Morire davvero. Rivolsi uno sguardo verso il cielo.

«Beh, se oggi è il 28 agosto e la memoria non ha subito danni, significa che quello di oggi è il nostro sessantesimo anniversario di matrimonio, e Noah non è qui a festeggiare insieme a noi…

Noah è stato l’uomo più brillante che abbia mai conosciuto. Il più dolce, il più premuroso, il più buono. Un’anima rara, di quelle che si incontrano una volta sola nella vita, e solo se si ha una grande, immensa fortuna. Era gentile, sempre sorridente, aveva una parola buona per tutti. Era sempre impegnato, eppure trovava il tempo per dare una mano a chiunque avesse bisogno del suo aiuto. Aveva un cuore d’oro, un senso dell’umorismo tutto suo, capiva esattamente quello che mi passava per la testa soltanto guardandomi negli occhi – e lo capiva anche quando non l’avevo capito nemmeno io.

Provai in tutti i modi a non innamorarmi di lui: sapevo che se l’avessi perso non sarei mai più stata la stessa. Era bello, troppo, troppo per una come me, che quando lo vidi per la prima volta stentavo appena a camminare sulle mie gambe da sola, e che insieme a lui ho imparato a correre. Adesso che non è più con me non so neanche da dove iniziare a rimettermi in piedi senza franare.

Non è stato soltanto un marito: Noah è stato per me un compagno, un amico, un padre, un fratello. Il pezzo mancante del mio puzzle. E ora, ogni volta che chiudo gli occhi quando provo a dormire o quando sono troppo stanca di esistere in una realtà dove lui non è con me, il suo viso mi sorride e il mio cuore si spezza un altro po’.

Siamo stati insieme così a lungo e ci siamo amati così intensamente che se allungo una mano in questo buio che mi avvolge riesco a sentire le sue dita che stringono le mie. E non fatico a immaginare quel suo buffo sorriso, i suoi occhi splendenti, quel piglio sbarazzino da ragazzo ribelle che mi ha fatto perdere la testa per lui, ogni giorno, da sessant’anni a questa parte.

È così reale che mi sembra quasi vero, una magia che dovrebbe alleggerirmi il cuore e invece non fa che renderlo più pesante, perché appena mi sveglio e ricordo e rivedo quella luce e il tuo ultimo sorriso, io…

Torna. Sono qui. Torna da me. Mi manchi. Mi mancherai sempre. Ti amo. La tua Betty.»

Fu difficile portare a termine la cerimonia, ma in qualche modo il sacerdote ci riuscì. Non io, però: io non riuscii a continuare a seguirlo, dopo aver dato l’ultimo, definitivo addio all’amore della mia vita. Il mio sguardo rimase fisso sulla bara che giaceva, immobile e solenne, di fronte a me, all’interno della quale il mio mondo avrebbe riposato per sempre.

Il funerale non si protrasse a lungo. Una volta cantato l’ultimo saluto a Noah, una processione silenziosa mi seguì dietro il feretro dalla chiesa all’adiacente cimitero.

Il cielo era grigiastro, cinereo. Il mondo sembrava quasi paralizzato: non tirava un filo di vento, non si sentiva alcun cinguettio, pur essendo ancora estate. Pareva quasi fosse l’intero universo a voler dedicare un pensiero a Noah, non solo il centinaio di anime raccolte intorno alla sua tomba.

Successe all’improvviso, e lasciò tutti a bocca aperta, mentre sul mio viso le lacrime non riuscivano a smettere di scendere: il sacerdote aveva appena iniziato a pregare quando un fiocco scese dal cielo e andò a posarsi sulla bara. Ne seguì un altro, e un altro ancora: era il 28 di agosto e la neve scendeva copiosa su di noi, a ricoprire con il suo candore ogni cosa e a regalarci l’abbraccio silenzioso di Noah.

«Neve ad agosto?» mormorò qualcuno, nell’incredulità generale.

«Staranno provando gli impianti per la stagione invernale…» rispose qualcun altro.

«È un miracolo!» sussurrò Gill al mio fianco, gli occhi lucenti di commozione.

«È Noah» le risposi, sorridendo. E, con lo sguardo rivolto al cielo, aggiunsi: «Ciao amore mio, bentornato tra noi.»

Disclaimer & Copyright

Il contenuto pubblicato nel racconto qui sopra è protetto dalla normativa vigente in materia di tutela del diritto d’autore (Legge n. 633/1941): la riproduzione dello scritto, anche parziale, senza autorizzazione è vietata. La storia è un’opera di fantasia. Analogie con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, sono puramente casuali.

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4 commenti

  1. katya Ferrante

    Ciao,
    sono qui per la sfida e mi sarei aspettata di tutto ma non questo tipo di storia.
    Ero partita felice, sorridente e poi boom… il dolore e, sinceramente non avevo capito bene, pensavo fosse solo coma o altro, ma devo dire che è stato incredibile.
    Il tuo stile di scrittura è buono, hai curato ogni cosa e le emozioni su cui ti sei basata per scrivere questo racconto sono quelle che ha provato anche il lettore.
    Sono commossa, una storia d’amore bellissima ma anche terribilmente triste.
    Complimenti ^_^

  2. Ciao! Storia davvero bella. In genere non sono un’amante delle storie d’amore, ma questo scritto è estremamente toccante e dolce. Hai fatto davvero un ottimo lavoro!
    Gaia

  3. Liv

    Ciao.
    La tua storia è molto bella, romantica e direi che rispetta la consegna in pieno. E’ un po’ triste, tuttavia credo che in questo modo rispecchi la realtà. E’ verosimile, si sa che la morte fa parte della vita e anche se ci sono rimasta un po’ male, devo dire che ho apprezzato molto la tua scelta.
    Bravissima.

  4. Nuage Rose

    Ciao, sono qui per la sfida!
    Storia molto bella, ma davvero triste. Ma la morte fa parte della vita e c’è gente che è abbastanza fortunata da trovare la persona giusta con cui condividere gli anni ed essere felici insieme, un vero dono per cui essere sempre grati.
    A presto!

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